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“Lapis aequipondus” una piedra “multiusos” Puedes leer este artículo en español abriendo este enlace
Come tutte le società organizzate anche l’antica Roma aveva un sistema di unità di misura molto ben strutturato e soggetto a continui controlli, per evitare le frodi. Per le bilance, venivano utilizzati pesi di diverse grandezze, a seconda della necessità, regolarmente marchiati, con il valore scolpito sulla pietra ed addirittura con il nome del questore. L’unità di misura era la libbra romana (equivalente a 327,45 g), con i suoi multipli e sottomultipli. Non dimentichiamo che in latino ‘libbra’ vuol dire anche ‘bilancia’. Questi pesi erano di forma circolare, piatti nelle parti superiori ed inferiori. Quelli più grandi avevano due anelli, ovvero due rampini di ferro, che servivano per sollevarli, e quelli più piccoli ne avevano solo uno. I maggiori raggiungevano il peso di cento libbre, ossia circa 33 kili.
Il materiale utilizzato per questi pesi era la serpentina, una pietra ornamentale appartenente alla classe delle giade, caratterizzata da un fondo colore verde scuro, che tende al nero, dura e compatta, chiamata anche pietra nefritica (“lapis nephriticus”) per la sua supposta efficacia nella cura delle malattie renali.
Normalmente era conosciuta con il come di “lapis aequipondus” (pietra da contrappeso), per l’uso che se ne faceva.
Ma da quando questi pesi, quelli più grandi, vennero anche utilizzati come strumento di tortura e martirio durante le persecuzioni contro i cristiani, ricevettero anche la denominazione di “Lapis martyrum” (pietra dei martiri). Venivano legate al collo delle vittime quando queste venivano gettate in acqua, nei pozzi o nelle cloache, o ai piedi quando il corpo veniva appeso per i polsi e lasciato sospeso. Un esempio di quest’ultima modalità possiamo vederlo in uno degli affreschi de Santo Stefano Rotondo di Roma.
Sempre a Roma, queste pietre sono ancora visibili in varie chiese, come per esempio a Santa Maria in Trastevere (ben tre con le rispettive catene), a San Lorenzo fuori le mura o a Santa Sabina.
Quella di Santa Sabina (magnifica chiesa paleocristiana del V secolo) è poi legata a una leggenda per la quale è più conosciuta come la ‘pietra del diavolo’ (“lapis diaboli”), ed è visibile dentro la stessa chiesa, subito dopo l’ingresso principale, a sinistra, sistemata su una colonnina tortile.
Secondo la leggenda, San Domenico di Guzmán (fondatore dell’ordine dei domenicani, al quale papa Onorio, nel 1222, aveva affidato la chiesa) era solito pregare sopra una lastra di marmo che proteggeva le ossa di alcuni martiri. Una notte si presentò il diavolo in persona che cercò in tutti i modi di tentarlo, ma senza successo. Allora, irritato da tanta devozione, prese con i suoi artigli un’enorme pietra nera e la scagliò con tutta la forza verso il santo. Ma questa lo sfiorò senza fargli alcun danno e la pietra cadde sul pavimento rompendo la lastra di marmo che è ancora visibile nella “schola cantorum” (anche se le male lingue dicono che la lastra fu spezzata accidentalmente dall’architetto Domenico Fontana durante i lavori della ristrutturazione della chiesa nel 1527). E a ricordo di questo fatto, la pietra, sulla quale si possono ancora vedere i fori lasciati dagli artigli del diavolo, fu sistemata su una colonnina in bella vista, forse a voler ricordare che il bene trionfa sempre sul male.
Torno a leggerti con immutato interesse cara Nicoletta. Bel post , gradevolissimo come sempre. Isabella
Grazie e… ben tornata!
Grazie amica cara
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Documentatissima, Nicoletta!
Una pietra “multitasking” potrei commentare, se non appaio blasfema
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