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Reliquiosamente

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Archivi autore: Nicoletta De Matthaeis

Le catacombe (3) – Iconografia ed epigrafia

10 giovedì Lug 2025

Posted by Nicoletta De Matthaeis in Arte, Storia

≈ 6 commenti

Tag

catacombe, Chrismon, ichtus, lapicida, monogramma di Cristo, orante, simbologia cristiana

– La Madonna con il bambino affiancata da un profeta (Balaam o Isaia), la prima immagine di Maria esistente. II-III secolo. Catacombe di Priscilla, Roma

L’arte paleocristiana (I-V secolo) cominciò a formarsi precisamente con le catacombe, essendo quindi la più antica forma d’arte legata alla storia del crsitianesimo. L’iconografia nelle catacombe cristiane inizialmente (I-II secolo) è molto semplice, spesso reinterpretando non solo tecniche e stili dell’arte pagana ma anche i soggetti (per esempio dèi pagani come Mercurio che vengono trasformati nel Buon Pastore) e per questo fu anche chiamata “arte romana cristianizzata”. I cristiani convertiti erano pur sempre cittadini di cultura e tradizioni romane e gli artisti, fino alla metà del IV secolo, rispondevano senza distinzione a committenze pagane e cristiane.

– Il Buon Pastore. Catacombe di Santa Domitilla, Roma

La simbologia era molto importante e quindi molto presente: da una parte perché il cristianesimo era ancora influenzato dalle sue radici culturali giudaiche, e la religione ebraica è aniconica, ossia che proibisce rappresentare essere divini, profeti od altri personaggi religiosi, e dall’altra perché era legata alla natura clandestina della pratica del culto nel periodo precedente all’Editto di Milano. Soggetti come pesci, rami di ulivo, uccelli (come il pavone, la fenice e la colomba) la vite o l’ancora sono estensamente rappresentati, oltre, naturalmente, alla croce.

– La croce ancora. Catacombe di Santa Domitilla, Roma
– Il pesce, simbolo di Cristo. Catacombe di Santa Domitilla, Roma

Molti dei simboli ebraici sono ripresi dalla religione cristiana, come dimostra diversa iconografia in catacombe ebraiche, dove possiamo trovare, oltre alla menorah (il calndelabro a sette braccia), l’etrog (il cedro) o lo shofar (il corno), tipici simboli ebraici, anche la palma, il pavone, o  giardini fioriti che ricordano la creazione del paradiso terrestre (Gen 2,8-10), molto rappresentati anche nella catacombe cristiane.

Tutti i simboli hanno il loro significato, quasi sempre legato alla resurrezione e la salvezza eterna, come la palma (simbolo del martirio e quindi della vittoria, dell’ascesa, della rinascita e dell’immortalità), il pavone (che in inverno perde le piume e in primavera ne acquiesta di nuove ancor più belle) o la fenice (che rinasce dalle sue proprie ceneri). Come sappiamo, il pesce rappresenta Cristo1; la colomba, con il ramoscello di ulivo nel becco, la pace del paradiso, la salvezza apportata dall’arca di Noè; l’ancora la fermezza della fede e la speranza della promessa della vita futura; la vite, i tralci con l’uva, che tradizionalmente era il simbolo legato al dio Bacco, divenne poi emblema di Cristo, grazie alle parole che lui stesso pronuncia nel Vangelo2.

– Il pavone. Catacombe di San Gennaro, Napoli
– La colomba con il ramo di ulivo e il monogramma di Cristo. Catacombe di Santa Ciriaca, Roma

Alfa ed Omega, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, indicano che Cristo è principio e fine di ogni cosa3. Tra i simboli più conosciuti c’è quello dell’agnello, la creatura pura sacrificata a Dio dal popolo d’Israele per liberarsi dalla schiavitù d’Egitto. Il simbolo dell’agnello e del suo sacrificio è mantenuto anche nel Nuovo Testamento: Gesù è sacrificato per la salvezza del popolo di Dio. L’agnello viene raffigurato  spesso con un’aureola, o con la croce, o lo stendardo della Resurrezione.

– Croce con Alfa e Omega. Catacombe di Santa Ciriaca, Roma

Già verso la fine del secondo secolo si sviluppa un’iconografia più narrativa, che attinge soprattutto dalle scritture: dell’Antico Testamento le più rappresentate sono ‘Daniele nella fossa dei leoni’, il ‘Peccato originale di Adamo ed Eva’, ‘Giona inghiottito dalla balena’, ‘Noè ed il Diluvo Universale’, il ‘Sacrificio di Isacco’ o i ‘Giovani di Babilonia salvati dalle fiamme della fornace’; e del Nuovo Testamento, la ‘Resurrezione di Lazzaro’, la ‘Moltiplicazione dei pani e dei pesci’ ed altri miracoli, ‘l’Ultima Cena’ o il ‘Buon Pastore’. Questi rappresenta Cristo Salvatore con la pecora sulle spalle, l’anima che Lui ha salvato. Gesù è il Pastore di tutti i suoi discepoli. L’orante è rappresentato con frequenza. E’ una figura vestita con una tunica a maniche lunghe e con le braccia alzate verso il cielo, in preghiera, intercedendo per chi resta, chiedendo “pietà” per i cristiani. Non mancano immagini della Natività, dei Re Magi o degli apostoli.

– Orante. Cubicolo della Velata. Catacombe di Priscilla, Roma

In alcuni casi, come nell’Ipogeo di Dino Compagni di Roma, scoperto nel 1955, datato IV secolo, troviamo affreschi che rappresentano temi biblici rappresentati con iconografie inconsuete, anche tratte dal repertorio mitologico. Tali rappresentazioni testimoniano la presenza, accanto a gruppi cristiani, di gruppi non ancora convertiti.

– Il peccato originale. Catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, Roma

Per quanto riguarda le teniche utilizzate, troviamo dipinti, mosaici (dei quali ne restano solo poche tracce) o rilievi di sarcofagi. Le pitture non sono encausti ma solo affreschi e tempere, salvo eccezioni, giacché l’encausto richiede vari strati di intonaco che le pareti di tufo e pozzolana non potrebbero sostenere. I colori sono minerali e la tavolozza povera: predominano l’ocra gialla, il rosso e il verde; più raramente si trovano il minio e il cinabro e assai più raro il turchino. La pittura si distende su pareti e volte di cubiculi, sullo sfondo, nel sottarco e sulla fronte degli arcosoli. In alcuni casi anche negli ambulacri monumentali. Nel periodo più antico la decorazione è più semplice, tracciata rapidamente, dove le figure si rilevano da lontano mentre che da vicino sono più che altro macchie di colore. In questa fase pittorica possiamo collocare la famosa Madonna di Priscilla (seconda metà del II secolo, inizio III), che ha vicino un profeta (Balaam o Isaia), l’immagine di Maria più antica del mondo4.

– Il sacrificio di Isacco. Catacombe di Via Latina, Roma

Le tecniche pittoriche, così come l’uso dei colori, cambiano col passare del tempo. I colori più luminosi cedono il passo a tinte piu calde, rossi e gialli coriacei con larghe ombre scure. Ma poi, nel secolo IV risorge il gusto del colore.

Inoltre lo stile e i soggetti cambiano a seconda dell’ubicazione delle catacombe perché subiscono l’influenza della cultura locale. Se a Roma le catacombe sono influenzate da modelli pagani a Siracusa gli affeschi sono chiaramenti orientaleggianti. In quelle di Napoli, nelle quali si è continuato a seppellire fin verso il X secolo, sono evidenti le varie epoche: dall’ultima epoca pompeiana fino all’influsso bizantino per derivare poi in uno stile tutto campano.

– Frammento di lapide di una tomba. Catacombe di Priscilla, Roma

In quanto all’epigrafia, gli epitaffi sulle tombe più antiche registrano solo il nome del defunto, raramente accompagnato da quello del dedicante o dall’augurio di pace. Poi il formulario è andato arricchendosi di elementi onomastici, anagrafici, topografici (relativi al luogo di abitazione o di lavoro) e di formule augurali come ad es. vivas in Deo (vivi in Dio), requiescit in pace (riposa in pace), ecc.  Ricorrono anche titoli di merito (come martyr e confessor), altri liturgici, onorifici o cultuali (sanctus e beatus). Per i cristiani la data di morte veniva indicata come il dies natalis, il giorno di nascita alla vita eterna. Altre formule epigrafiche sono le acclamazioni come gli auguri di pace, o dedicati alla felicità celeste, o il refrigerium, l’augurio di partecipazione al convito celeste, ecc., e le orazioni, come le invocazioni dell’intercessione o le preghiere per il defunto. Il materiale utilizzato era in gran parte marmo. Solitamente era un artigiano specializzato, il lapicida, ad operare sul materiale: tuttavia in moltissimi casi non possedeva una cultura sufficiente per scrivere in lingua corretta, e diffusamente si riscontrano alterazioni fonetiche e morfologiche proprie del vernacolo.

– Monogramma di Cristo o Chrismon. Catacombe di San Callisto, Roma
– Monogramma di Cristo attorniato da una corona di alloro. Catacombe di Santa Sofia, Canosa di Puglia

Altro genere epigrafico si considerano i graffiti, prodotti dai visitatori sull’intonaco delle pareti presso i sepolcri venerati. Le abbreviazioni si crearono per guadagnare spazio e tempo, come per esempio per sospensione, trascrivendo le prime lettere della parola (con una sbarra trasversale), o per contrazione, cioè sopprimendo alcune lettere. Esistono anche abbreviazioni per assimilazione di elementi o con lettere intrecciate, da cui poi deriva il monogramma, il più famoso dei quali è il monogramma di Cristo5.

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1.- In greco pesce è ICTHUS (ιχθύς) che sarebbe l’acronimo di “Iesous Cristòs Theou Uiòs Soter” Gesù Cristo figlio di Dio salvatore (Gesù Cristo di Dio Figlio Salvatore).

2.- «Io sono la vite. Voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete fare nulla.» (Giovanni, 15, 5)  

3.- Apocalisse (22, 13): “Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine”.

4.- Quest’immagine, inoltre, proverebbe la presenza di un culto mariano già alla fine del II secolo o inizi del III, quando ‘ufficialmente’ fu introdotto nel 431 nel Concilio di Efeso, nel quale si proclama il dogma di fede che Maria è la “Madre di Dio”, in greco Theotókos.

5.- Il Chi Rho, conosciuto anche come monogramma costantiniano o eusebiano o chrismon, croce monogrammatica. È costituito essenzialmente dalla sovrapposizione delle prime due lettere del nome greco di Cristo, X (equivalente a “ch” nell’alfabeto latino) e P (che indica il suono “r”). Talvolta sotto la gamba della P si trova una S, ultima lettera del nome ‘Χριστός’ o appare insieme alle lettere alfa e omega e attorniato da una corona d’alloro, segno della vittoria.  

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Leggi anche: Le catacombe: Origine, sviluppo e declino; Le Catacombe: Morfologia; Le catacombe: il culto dei martiri; Le catacombe di Roma; Le catacombe d’Italia; Le catacombe nel mondo

Prossimo articolo: Le catacombe del mondo

¿Dónde está la tumba de Moisés?

23 lunedì Giu 2025

Posted by Nicoletta De Matthaeis in Artículos en español, Pellegrinaggi, Storia

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Éxodo, Desierto de Negev, Egeria, Emmanuel Anati, Flavio Barbiero, Har Karkom, Jebel Musa, Macizo Santa Catalina, Moisés, Monte Horeb, Monte Nebo, Monte Sinai, Nabi Musa, Tumba de Mosés, Valle de Moab

Dov’è la tomba di Mosè? Puoi leggere quest’articolo in italiano cliccando qui

– Valle del Jordán, la ‘Tierra prometida’ vista desde la cima del Monte Nebo

“Subió Moisés de los campos de Moab al monte Nebo, a la cumbre del Pisga, que está enfrente de Jericó; y le mostró Jehová toda la tierra de Galaad hasta Dan, todo Neftalí, y la tierra de Efraín y de Manasés, toda la tierra de Judá hasta el mar occidental; el Neguev, y la llanura, la vega de Jericó, ciudad de las palmeras, hasta Zoar. Y le dijo Jehová: Esta es la tierra de que juré a Abraham, a Isaac y a Jacob, diciendo: A tu descendencia la daré. Te he permitido verla con tus ojos, mas no pasarás allá. Y murió allí Moisés siervo de Jehová, en la tierra de Moab, conforme al dicho de Jehová. Y lo enterró en el valle, en la tierra de Moab, enfrente de Bet-peor; y ninguno conoce el lugar de su sepultura hasta hoy. Era Moisés de edad de ciento veinte años cuando murió; sus ojos nunca se oscurecieron, ni perdió su vigor. Y lloraron los hijos de Israel a Moisés en los campos de Moab treinta días; y así se cumplieron los días del lloro y del luto de Moisés. Y Josué hijo de Nun fue lleno del espíritu de sabiduría, porque Moisés había puesto sus manos sobre él; y los hijos de Israel le obedecieron, e hicieron como Jehová mandó a Moisés”  (Deuteronomio, 34, 1-9)

Según el Deuteronomio y la tradición judeocristiana, Moisés vio desde el Monte Nebo la Tierra que Dios había prometido a su pueblo, pero en la que él nunca entraría. Murió poco después y fue sepultado en las cercanías, en el valle de Moab, donde se encuentra el Monte Nebo, pero nadie sabe dónde está su tumba. Incluso, según la tradición judía, fue enterrado por el mismo Dios, para que el lugar de su sepultura permaneciera desconocido y así evitar los peligros de la idolatría, y que su figura pudiera eclipsar la imagen de Dios.

– Iglesia paleocristiana en la cima del Monte Nebo. Capilla del baptisterio

El Monte Nebo se encuentra actualmente en el oeste de Jordania, en la cadena montañosa de Abarim, al este del río Jordán, y tiene una altitud de unos 817 metros. Desde su cima se puede ver la “Tierra Santa”, el Valle del Jordán, la ciudad de Jericó y, en los días despejados, incluso Jerusalén. En el Monte Nebo hay una iglesia del siglo IV, mencionada también por la peregrina Egeria1 en su Itinerarium, quien visitó los lugares santos hacia finales del siglo IV. La iglesia tuvo ampliaciones posteriores en los siglos V y VI, como por ejemplo la capilla del baptisterio, y muy cerca se construyó un monasterio bizantino. Por lo tanto, ya era lugar de peregrinación desde el siglo IV. Sin embargo, fue abandonada en el siglo XVI y posteriormente redescubierta, gracias sobre todo a los diarios de viaje de los primeros peregrinos. El sitio fue adquirido por los franciscanos en 1932, quienes promovieron trabajos de excavación que sacaron a la luz las ruinas de la antigua basílica y que en gran parte reconstruyeron. En los años sesenta fueron descubiertos algunos bellísimos mosaicos tanto en el baptisterio antiguo (que representa escenas de caza y pastoreo, del año 531), como en el nuevo (del año 597), creado a partir de una antigua capilla funeraria.

– Interior de la iglesia paleocristiana en el Monte Nebo. Mosaicos

Además de la antigua basílica, en la terraza panorámica del Monte Nebo se puede admirar hoy, junto al magnífico paisaje, la escultura cruciforme con serpientes entrelazadas y el monolito. La escultura, de bronce, fue realizada por Gian Paolo Fantoni, artista florentino. Esta recuerda el Nehushtán, el bastón de Moisés que, con solo mirarlo, salvaba al pueblo de Israel de la mordedura de las serpientes en el desierto2. El monolito, erigido para el Jubileo del año 2000, obra del escultor Vincenzo Bianchi, se define como el “Libro en piedra del Amor” y está dedicado al Papa Juan Pablo II. El mensaje (citas del Evangelio de San Juan y de las cartas de San Pablo) está esculpido en tres lenguas: griego, latín y árabe.

– Cima del Monte Nebo. Escultura que representa el “Nehushtan”, o Bastón de Moisés
– Cima del Monte Nebo. Monolito

La muerte de Moisés se fecha hacia el 1200 a.C. Pero estudios recientes han puesto en duda la creencia milenaria respecto a su tumba. Todo comenzó cuando el insigne arqueólogo Emmanuel Anati, tras años de estudios sobre arte rupestre en el desierto del Néguev, anunció en 1982 que la montaña de Moisés (Gebel Musa), el famoso monte Horeb o monte Sinaí, no se encontraría al sur de la península del Sinaí, sino en la meseta de Har Karkom (Monte del Azafrán) en el desierto del Néguev3. Es decir, el monte Horeb sería la cima principal de la meseta de Har Karkom, en la frontera entre Egipto y Jordania, y no el tradicionalmente identificado hasta ahora como el Jebel Musa, en el macizo de Santa Catalina. Importantes hallazgos arqueológicos respaldan esta hipótesis, además de las numerosísimas inscripciones rupestres, unas 40.000, muchas de las cuales tienen un contenido religioso o incluso hacen alusión a Moisés, como el bastón con serpientes o las tablas de la ley. Era, por tanto, un lugar sagrado al que la gente subía a orar. Algunas inscripciones representan la cabra montesa, asociada al culto del dios Sin, dios de la Luna. Podría haber sido, pues, una montaña dedicada a Sin, de donde provendría el nombre “Sinaí”. Incluso sugiere que la fecha del Éxodo debería situarse en torno al 2000 a.C., unos 750 años antes de la fecha generalmente aceptada, ya que la actividad religiosa en esta zona habría terminado hacia el 2000 a.C., y no habría habido ninguna actividad humana en Har Karkom en el siglo XIII a.C. Estaría históricamente probado que la localización del Monte Sinaí en el monasterio de Santa Catalina se estableció sólo a partir del año 536 por un decreto del emperador Justiniano. Además, siempre según Anati, en ese lugar no se ha encontrado un solo resto arqueológico que demuestre un asentamiento de un grupo numeroso de personas en tiempos de Moisés o que indique que el Jebel Musa fuera una montaña sagrada.

– Deserto del Negev. Meseta de Har Karkom
– Har Karkom. Grabado rupestre che podría representar la tablas de la ley

Una vez adoptada esta hipótesis, Flavio Barbiero4, en base a estudios adicionales, sugiere que también la tumba de Moisés podría haber estado en esta montaña, que está coronada por una peña, a modo de acrópolis, con un pequeño templo y unas estelas, en la que había una caverna/cripta excavada al menos mil años antes. La famosa cueva de Elías, mencionada también por Egeria, debía encontrarse bajo esa peña. También el profeta Jeremías la visitó e introdujo una tienda en su interior, convencido de haber llegado al monte donde había subido Moisés5. Este tipo de lugares sólo eran conocidos por los sumos sacerdotes y su círculo más cercano, y se mantenían en secreto para evitar profanaciones. El cronista del Deuteronomio, de hecho, no proporciona deliberadamente datos sobre la sepultura de Moisés. Que Moisés fuera enterrado en un terreno cualquiera, en una tumba excavada en la tierra, parece poco creíble. Como gran líder que fue, debía tener una tumba digna de su persona, al menos igual a la de sus predecesores: una caverna excavada en la roca, y ésta no podía haberse preparado en poco tiempo ni en cualquier lugar. Seguramente el valle de Moab no ofrecía esta posibilidad. Hubo 30 días de duelo y, una vez transcurridos, Josué comenzó las operaciones para la invasión de Palestina. Pero, ¿qué hicieron durante esos días de duelo? La distancia entre el valle del Jordán y Har Karkom es de 11 días de camino, tiempo que habrían empleado los dos hijos de Moisés, Gersón y Eliezer, junto con Josué y el hijo de Aarón, Eleazar, para llevar el cuerpo de Moisés a la cueva en Har Karkom, que ya había sido adecuadamente preparada durante la travesía por el desierto. Otros siete días fueron necesarios para los ritos funerarios. Luego, 11 días para el regreso. Todo esto, más el primer día de proclamación del duelo, suma 30. Muchos otros datos, basados en el estudio de la Biblia y comparados con datos históricos, son aportados en apoyo de esta teoría, que ha sido fuertemente contestada por los defensores de la versión tradicional. Sin embargo, podría ser tenida en consideración, en espera de nuevos resultados de la campaña de excavaciones en Har Karkom.

 – Monte Har Karkom

El lugar de la sepultura de Moisés cambia, sin embargo, según la tradición islámica. Para los musulmanes, que lo consideran uno de los más grandes profetas predecesores de Mahoma – nombrado nada menos que 136 veces en el Corán – fue sepultado más allá del río Jordán, a 7 km al sur de Jericó y a 15 de Jerusalén, en el complejo llamado Nabi Musa. Este territorio pertenece actualmente a Palestina, y es uno de los lugares de interés de Tierra Santa desde donde, en un día claro, se puede ver el Monte Nebo. Se dice que este complejo fue construido por Saladino, quien venció a los cruzados en 1187 y devolvió Jerusalén a los musulmanes, pero que al mismo tiempo demostró una gran tolerancia religiosa permitiendo a los cristianos visitar la Ciudad Santa. Cuenta la leyenda que Moisés se le apareció en sueños a Saladino revelándole el lugar de su sepultura, y por ello hizo construir el memorial que pronto se convirtió en meta de peregrinación para los musulmanes. En realidad, el complejo de Nabi Musa, que comprende una ‘cámara mortuoria’ construida sobre la supuesta tumba del profeta, una mezquita y alojamientos para peregrinos, fue construido en el siglo XIII por los mamelucos, cuando se establecieron en Tierra Santa. Varias cúpulas, añadidas en el siglo XV junto con un minarete, coronan el complejo. Otras intervenciones fueron realizadas en los siglos XVI y XIX.

– Nabi Musa
– Nabi Musa, vista aérea
– Nabi Musa, “Tumba de Moisés”

Este lugar fue durante mucho tiempo la primera etapa para quienes realizaban la peregrinación de Jerusalén a La Meca. Un cementerio cercano acogía a los peregrinos que morían durante el viaje. Con la caída de la dinastía mameluca, el Nabi Musa entró en un periodo de decadencia que se prolongó hasta principios del siglo XIX, cuando fue restaurado por los turcos. Bajo el Imperio Otomano, la difícil situación entre judíos y musulmanes se mantenía bajo control. Pero con la caída del Imperio y la retirada de los turcos de Tierra Santa, vencidos por las fuerzas británicas en 1918, ya no fue posible dominarla. En 1920 comenzaron los primeros enfrentamientos en Jerusalén entre judíos y musulmanes, que fueron en aumento. Así, en 1937 la administración colonial británica prohibió la peregrinación anual al Nabi Musa. Esta decisión fue posteriormente adoptada también por el gobierno jordano, ya que desde 1948 hasta 1967 este territorio estuvo bajo su jurisdicción, a consecuencia de la ocupación de Cisjordania por parte de este país (1948), ya que podía convertirse en un vínculo de protesta política. Desde 1967 el control del Nabi Musa pasó a Israel, y desde 1995 está administrado por la Autoridad Nacional Palestina. En el marco de los programas de las Naciones Unidas “Apoyo al Desarrollo del Turismo Cultural” y “Ayuda al Pueblo Palestino”, este complejo arquitectónico fue recientemente restaurado por el PNUD (Programa de las Naciones Unidas para el Desarrollo), con fondos de la Unión Europea y en colaboración con el gobierno del Estado de Palestina. La solemne inauguración tuvo lugar el 17 de julio de 2019 con la presencia de autoridades locales y representantes de la UE, del PNUD, varias representaciones diplomáticas y de Europa Nostra. Hoy el santuario y la mezquita forman el núcleo del complejo y están separados de las demás construcciones por dos patios. El complejo se presenta como un centro multifuncional de acogida turística, tanto religiosa como no religiosa.

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1.- Egeria. Diario di Viaggio. A cura di E. Giannarelli e A. Clerici. Editrice Paoline 2015

2.- « Y Moisés hizo una serpiente de bronce, y la puso sobre un asta; y cuando alguna serpiente mordía a alguno, miraba a la serpiente de bronce, y vivía» (Números 21,9). Para los cristianos, es la imagen de Cristo crucificado, Salvador del Mundo, citado también en el Evangelio de Juan  «Y como Moisés levantó la serpiente en el desierto, así es necesario que el Hijo del Hombre sea levantado» (Juan, 3,14).

3.- E. Anati: Har Karkom e la questione del Monte Sinai, Pistoia 2016

4. – F. Barbiero. La tomba di Mosè: la cripta sul Monte Horeb. Kindle. 2020. – F. Barbiero. La Bibbia senza segreti, Milano 1988

5.- « y que habiendo llegado a aquél monte allí Jeremías, al cual subió Moisés, y desde donde vio la herencia de Dios, halló una cueva, donde metió el Tabernáculo, y el Arca, y el altar del incienso, tapando la entrada». (2 Macabeos -2,5)

Le catacombe (2)- Morfologia

09 lunedì Giu 2025

Posted by Nicoletta De Matthaeis in Arte, Storia

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arcosolium, catacombe, cryptae, cubiculum, fossori, Gallerie a graticola, gallerie a maglie larghe, gallerie a spina di pesce, loculo

– Arcosolio – Catacombe di Via Latina, Roma

L’accesso alle catacombe avveniva normalmente attraverso una ripida scala (descensus o catabaticum) discendente fino a 7-8 metri dal livello del terreno e proseguendo orizzontalmente anche per più di 200 metri. La scala poteva essere preceduta da altre strutture, come un vestibolo d’ingresso. Molto più raramente, ove la morfología del terreno lo consentiva, si poteva accedere alla zona ipogea attraverso un ingresso situato in piano o alle falde di una collinetta.

– Scala di accesso – Catacombe di San Callisto, Roma

Lo spazio veniva sfruttato al massimo scavando diverse gallerie, normalmente con pianta a “graticola” o “a spina di pesce”. Nel primo caso, ai lati di una galleria matrice, in asse o ortogonale alla scala, diramano ad angolo retto, affrontate, numerose altre gallerie; nel secondo, due ambulacri paralleli, posti ad una certa distanza e talvolta serviti da scale autonome, sono raccordati da trasversali ortogonali. A partire dall’età costantiniana viene anche adottato uno schema “a maglie larghe” finalizzato a consentire l’apertura sistematica di cubicoli, talvolta di grandi dimensioni. Ma non sono gli unici impianti. In zone di campagna o in centri minori gli impianti erano meno regolari, senza uno schema predeterminato perché spesso effettuati da maestranze meno esperte. Nelle catacombe di altre città d’Italia possiamo trovare  schemi “a gallerie parallele”, come nel caso di quelle di San Gennaro a Napoli.

C
– Planimetria Catacombe Vigna Cassia, Siracusa

Una delle caratteristiche delle catacombe cristiane rispetto a quelle non cristiane coeve risiede nella loro estensione: le prime sono più vaste. Inoltre sono già pianificate con la possibilità di apportare futuri ampliamenti. Lo sviluppo delle varie aree ipogee provocò col tempo il loro reciproco congiungimento, la creazione di quel fitto e continuo reticolo di gallerie – di quel “labirinto” – che caratterizza le catacombe nella loro fase più matura. A Roma, le oltre 60 catacombe sviluppano complessivamente circa 150-170 Km di gallerie. Non di rado le catacombe utilizzavano antiche cave di pozzolana in disuso. Le larghe e tortuose gallerie di cui si componevano si prestavano perfettamente ad essere trasformate in cimiteri con pochi lavori di adattamento.  Spesso venivano riutilizzati i cuniculi idraulici o erano anche riadattati ambienti funerari ipogei più antichi.

– Lucernario – Catacombe di Priscilla, Roma

La luce e l’aria filtravano attraverso dei pozzi verticali quadrati, chiamati lucernari. Questi pozzi inizialmente erano usati per estrarre la terra. Venivano anche usate le lucerne ad olio.

Le gallerie furono chiamate cryptae, termine che poi passò a indicare tutto il complesso sotterraneo. Normalmente avevano più livelli, con profondità che potevano arrivare fino a 30 metri, costituiti da lunghe gallerie strette e basse, dette ambulacri, di circa 2,5 metri di altezza e 80-120 cm di larghezza, intercomunicanti ai vari livelli tramite ripidi scalini.

-Galleria/ambulacro con loculi – Catacombe di San Callisto, Roma

Nelle pareti degli ambulacri sono scavate le tombe: i “loculi” con un’altezza di 40–60 cm e una lunghezza variabile dai 120 ai 150 cm, con il lato lungo a vista, e le “tombe a forno” (dette anche ‘grotticelle’), con il lato corto a vista. Le pila erano dei gruppi di defunti disposti in ordine verticale; fra le pila solitamente si seppellivano i bambini. In queste sepolture i corpi venivano avvolti in lenzuoli di lino. I loculi potevano ospitare anche fino a tre corpi, e non si trovano soltanto nelle gallerie, ma anche nelle cappelle e perfino nelle pareti delle scale. I più elevati sono quasi sempre i più antichi, perché a mano a mano e misuratamente si abbassava il livello dell’escavazione.

– Cubilculum – Catacombe di Priscilla, Roma
– Cripta dei papi. Catacombe di San Callisto, Roma

Gli ambulacri potevano essere intervallati, oltre che con loculi più comuni, anche con cubicoli (cubiculum), piccoli ambienti, tipo cappella, destinati ad ospitare le tombe di una famiglia o associazione, e con le cripte, contenenti solitamente la tomba di un martire, con la presenza di un altare consacrato. Alcune di queste “cappelle” erano destinate alle celebrazioni liturgiche, come se fossero vere e proprie chiese sotterranee. E potevano avere le forme più svariate: quadrata, rettangolare, poligonale, rotonda, absidiata…. I cubiculi, inoltre, accolgono anche tombe a mensa, chiuse da una lastra orizzontale e sormontate da un arco, una sorta di nicchia arcuata, dette arcosoli (arcosolium) e destinate ai nobili, ai martiri e ai Papi.

– Cubiculum con arcosolio, Catacombe di Sant’Agnese, Roma

Queste sono solo le tipologie di tombe più comuni. Ma ce ne sono molte altre, come quelle ‘a pozzo’, a ‘cassa mortuaria’, a ‘baldacchino’, a ‘finestra’ o a ‘kokhim’, queste ultime tipiche dei cimiteri sotteranei ebraici.

La tomba veniva chiusa ponendo della malta e una lastra di marmo o delle tegole di terracotta, sulle quali veniva inciso il nome del defunto, l’età e la data di morte, e a volte un’epigrafe religiosa o simbolica. Spesso accanto a queste tombe più umili venivano collocati oggetti particolari, dalla tipologia più svariata, come lucerne, piccoli recipienti di vetro o ceramica, monete, elementi di corredo personale (orecchini, braccialetti, collane, ecc.), giocattoli di bambini (bambole, campanelli), ecc.

– Lapide mortuaria che avrebbe chiuso un loculo. Si può leggere una frase dedicata al defunto/a “dulcissim parent duo et) – Catacombe di Domitilla, Roma

Nelle catacombe era fondamentale il lavoro dei fossores (o fossori), definiti per la prima volta nel 303, che si occupavano di seppellire i morti e di scavare le gallerie, gli ambienti e le tombe, e talvolta della vendita delle stesse. Ai più specializzati di essi era anche affidata la decorazione dei sepolcri e l’esecuzione degli epitaffi. I fossores vivevano di donazioni, ma in seguito seppero approfittare della propria posizione, ottenendo lauti guadagni scambiando privilegi, come quelli di essere sepolti vicini ad un martire.

Dal IV secolo in poi le catacombe cristiane, che già avevano dimensioni colossali con centinaia di migliaia di tombe, divennero proprietà della Chiesa di Roma che assunse la responsabilità della loro amministrazione. Con papa Damaso I (366-384) comincia un’epoca d’oro per i cimiteri cristiani di Roma, con lavori di abbellimento e di ampliamento nelle cripte dei martiri per facilitare l’ingresso di un sempre maggiore afflusso di visitatori. Dal pontificato di Sisto III (432-440) non si ha più notizia di compravendite di sepolcri, che furono definitivamente abolite con papa Gregorio Magno.

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Leggi anche: Le catacombe: Origine, sviluppo e declino; Le catacombe: iconografia ed epigrafia; Le catacombe: il culto dei martiri; Le catacombe di Roma; Le catacombe d’Italia; Le catacombe nel mondo

Prossimo articolo: Le catacombe del mondo

Relicarios fantásticos: la Estauroteca Bessarione

24 sabato Mag 2025

Posted by Nicoletta De Matthaeis in Artículos en español, reliquiari

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Cardenal Bessarione, Estauroteca Bessarione, Gallerie dell’Accademia, Gregorio III Mammas, Irene Paleóloga, Juan VIII Paleólogo, Opificio delle Pietre Dure, Relicarios, reliquias, Scuola Grande di Santa Maria della Carità, Venecia

Reliquiari fantastici: la Stauroteca Bessarione     Puoi leggere quest’articolo in italiano cliccando qui

Se trata de un magnífico relicario/santuario bizantino1 datado en torno a los siglos XIII-XIV, con añadidos del siglo XV, muy probablemente encargado por la princesa bizantina Irene Paleóloga, o al menos el crucifijo que alberga en su interior, siendo el resto posterior. De hecho, encontramos el nombre de esta princesa grabado a lo largo del borde de dicho crucifijo, con la indicación de que esta princesa lo hizo adornar en plata2. Fue donado hacia 1430 por el emperador Juan VIII Paleólogo (1425-1448) a su confesor Gregorio III Mammas, futuro patriarca de Constantinopla (1443-50), quien, junto con el cardenal Bessarione (patriarca de Constantinopla de los Latinos y legado pontificio en Venecia), abogaba por la unión de la Iglesia ortodoxa con la católica.

– Estauroteca Bessarione, Anverso. Parte interior al descubierto. Sobre un fondo de esmalte negro decorado con rosetas de oro la cruz está rodeada por 4 pequeñas tecas que contienen las reliquias, protegidas por pequeñas placas de cristal, las imágenes de los emperadores Constantino y Elena, pintadas sobre vidrio y, en la parte superior, dos pequeños medios bustos de los arcángeles Miguel y Gabriel, en oro.

Gregorio fue depuesto por los antiunionistas en 1450 y huyó a Roma. En su lecho de muerte (1459) dejó el relicario al cardenal Bessarione. Éste, a su vez, lo donó a la “Scuola Grande di Santa Maria della Carità” de Venecia, que, sin embargo, sólo lo recibiría tras su muerte. Bessarione ya había sido recibido en Venecia por el Dogo y el Senado en 1463 en una ceremonia en la que fue nombrado hermano de honor de la “Scuola Grande della Città” en sustitución del recientemente fallecido cardenal Prospero Colonna. Así pues, la donación fue un gesto de reconocimiento hacia esta institución. El cardenal Bessarione ya había visitado “La Serenissima” en 1438 en el séquito del emperador bizantino Juan VIII. El relicario llegó a la “Scuola di Venezia” en 1472, a la muerte del cardenal, tal y como éste había dispuesto.

– Cruz: anverso y reverso

Con la invasión napoleónica, la Escuela fue suprimida en 1806 y el objeto llegó a Viena en 1821 a través del mercado de antigüedades y formó parte de las colecciones imperiales del emperador Francisco I de Austria, primero en el palacio de Hofburg de Viena y más tarde en el castillo de Ambras de Innsbruck. En 1896, el relicario fue trasladado de nuevo a Viena, al Kunsthistorisches Museum, donde permaneció hasta 1921, cuando fue devuelto a Italia a raíz de los acuerdos de 1919 sobre la restitución de obras de arte tras la caída del Imperio austrohúngaro y el final de la Primera Guerra Mundial. Volvió a la” Scuola della Carità”, entretanto rebautizada “Gallerie dell’Accademia”.

Se trata de un típico relicario bizantino con cruz extraíble3, cuya tabla central mide 47 x 32 x 4,5 cm (con la vara: 109 x40 x 19).

– Estauroteca Bessarione. Parte frontal, cerrada por un panel corredizo sobre el cual está pintada una escena de la crucifixión de Cristo, con la parte superior cubierta por una lámina de plata dorada. En tres lados está rodeada por un marco en el que se representan siete escenas de la pasión de Cristo.

La «caja» que contiene la cruz es de madera decorada con esmalte, oro, pan de plata dorada y bronce, perlas y piedras preciosas. También contiene cuatro pequeñas cajas relicario selladas con cristal de roca que albergan sendas reliquias, a saber, dos fragmentos de la Vera Cruz y dos de la Sagrada Túnica, que se disponen alrededor de la cruz, dispuestas en un espacio ad hoc. Este «contenedor» puede abrirse y cerrarse mediante un panel corredizo, en forma de «persiana».

Pero veamos los detalles.

En el anverso, el panel corredizo está rodeado por tres lados por un marco fijo, en el que están pintadas siete escenas de la Pasión de Cristo, separadas por bandas de gemas y filigranas. El panel central móvil representa una escena pintada de la crucifixión, adornada en la parte superior con una lámina de plata dorada y una hilera de gemas.

– Estauroteca Bessarione. Una de las tecas con dentro un fragmento de la Vera Cruz (izquierda) y una plaquita con el medio busto de un arcánagel (derecha)

La cruz extraíble de tres travesaños es de madera recubierta de filigranas de plata dorada y pequeños discos de esmalte verde que contienen símbolos o letras del alfabeto griego. En el anverso presenta un crucifijo en altorrelieve y en el reverso se repite la decoración en filigrana y discos esmaltados. El panel central interior que alberga la cruz está formado, además de por los cuatro pequeños relicarios antes mencionadas, por dos placas doradas con los medios bustos de los arcángeles Miguel y Gabriel, en la parte superior, y las figuras de Constantino y Elena, a ambos lados de la cruz, pintadas sobre vidrio. El conjunto está enmarcado por una decoración de flores tipo margaritas o rosetas que destacan sobre un fondo de esmalte negro. 

– Estauroteca Bessarione. Imágenes de los emperadores Constantino y Elena pintadas sobre vidrio

La parte posterior del relicario está recubierta de una lámina de plata con una placa conmemorativa de la donación a la “Scuola Grande di Santa Maria della Carità” por parte del cardenal Bessarione.

Bessario · Episcopvs · Sabin[ensis] · Car[dinalis] · Nicaenvs · Patriarcha · Constantinopolitanvs · Beatae · Virgini · Mariae · Scholae · Caritatis . Venetiis.

– Estauroteca Bessarione. Parte posterior con la placa que recuerda la donación por parte del Cardenal Bessarione

La vara de plata y el pedestal sobre el que descansa son un añadido encargado por el propio cardenal Bessarione y, por tanto, realizado antes de que el objeto llegara a Venecia, para que el relicario pudiera adaptarse también al uso procesional. El entronque del asta al relicario se hizo con un soporte de hojas y volutas también de plata dorada, asegurado por un marco/armadura de plata.

En 2010 fue sometido a una cuidadosa restauración por parte del “Opificio delle Pietre Dure” que duró unos tres años y en 2013 fue devuelto a las “Gallerie dell’Accademia” de Venecia, donde puede admirarse actualmente.

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1.- Del griego stauròs (cruz) e theke (armario). Relicario que contiene uno o varios fragmentos de la Vera Cruz.

2.- Irene Paleóloga era hija de Demetrio Paleólogo, a su vez hermano de Michel IX (1294-1320), co-emperador con su padre Andrónico II el Paleólogo (1282 y 1328). La inscripción reza: “Eirene Palaiologina, hija del hermano del emperador, decora con plata la imagen mundialmente venerada de la cruz, para la salvación y el perdón de los pecados”.

3.- Compara este relicario con la Estauroteca de Limburg

Le catacombe (1) – Origine, sviluppo e declino

09 venerdì Mag 2025

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Antonio Bosio, catacombe, Giovan Battista de Rossi, Incursioni barbare a Roma, martiri, papa Pasquale I, papa Zefirino, Persecuzioni

– Catacombe di Commodilla, IV secolo

Le catacombe cominciarono ad essere così chiamate nel III secolo d.C. sotto Diocleziano. E fu precisamente in occasione della sepoltura di San Sebastiano, dopo il suo martirio. Infatti fu portato in un cimitero fra il secondo ed il terzo miglio della Via Appia che precedentemente era un avvallamento usato dai romani per estrarre pozzolana.

Quindi pare che il termine derivi dal greco ‘katà’, sotto, presso, e ‘kymbe’ avvallamento, cavità, quindi ‘presso l’avvallamento’. Però è pure vero che ‘kymbas’ vuol dire anche piccole barche. Quindi in quei paraggi doveva esserci una qualche rappresentazione di due o più barchette. Forse un’osteria con quest’insegna. Il termine, pertanto, potrebbe significare ‘presso le barchette’.

Precedentemente si usava il termine cimitero (applicabile sia ai cimiteri sotterranei che a quelli sopra terra), dal greco ‘koimētérion’ (dormitorio) derivato dal verbo ‘koimáō’, ossia “dormire”, “riposare”, per sottolineare il fatto che per i cristiani la sepoltura è solo un momento temporaneo, in attesa della resurrezione finale.

In ogni caso il termine ‘catacombe’, che poi è stato applicato a tutti i cimiteri sotterranei cristiani e non, ha origine proprio in questo luogo della Via Appia, nelle catacombe prima ricordate per la memoria degli Apostoli Pietro e Paolo1 e poi definitivamente chiamate di San Sebastiano, che sono quasi adiacenti alle famose catacombe di San Callisto.

Catacombe ebraiche di Vigna Randanini, Roma
– Catacombe ebraiche di Villa Torlonia, Roma, II secolo – Affreschi con simboli ebraici

Ma facciamo un passo indietro perché è bene ricordare che questi cimiteri sotterranei non erano stati creati dai cristiani né essi ne facevano un uso esclusivo. Ne esistono anche di altre religioni. I primi ad usarli a Roma furono gli ebrei, perché rispondevano anche alla necessità di questa religione, come quella cristiana, di inumare i defunti perché rifiutavano la cremazione. Immediatamente dopo il primo periodo delle origini cristiane vi fu una netta separazione tra i sepolcreti ortodossi e quelli eretici. Ciò risulta evidente dalla presenza di affreschi o iscrizioni che escono dal ciclo iconografico che comunemente si ritrova nelle catacombe.

Ci sono anche i cimiteri sotterranei, chiamati sincretistici, appartenuti a pagani che accolsero dèi di altre religioni, oppure cristiani ancora inquinati di paganesimo. E poi ipogei più o meno vasti creati dagli Etruschi, dai Sabini e dagli stessi Romani, per restare nell’ambito romano e laziale.

– Catacombe di San Callisto, II secolo

Le catacombe erano anche la soluzione all’elevato costo dei terreni e la gran densità della popolazione, e ciò fu possibile perché a Roma il suolo è fatto soprattutto di tufo, un materiale molle, facile da scavare. Roma era quindi circondata da questi cimiteri (che ormai la città ha incorporato), perché la legge proibiva le sepoltura dei defunti dentro il recinto urbano. Molti terreni fuori porta furono comprati da persone danarose convertite al cristianesimo e poi destinati a cimiteri. Le catacombe furono poi usate anche come luogo per celebrare i riti funebri, gli anniversari dei martiri o, durante le persecuzioni, per celebrare l’eucarestia. I romani le conoscevano benissimo, anche se la ricca filmografia holliwoodiana, che ha origine in antiche credenze popolari, ci ha fatto credere che le catacombe erano un luogo segreto, dove i cristiani si nascondevano.

Le catacombe (o cimiteri con questa tipologia) si svilupparono soprattutto a Roma, circa sessanta, e altrettante nel Lazio. Ma ne esistono anche in altre città italiane e della conca del Mediterraneo, soprattutto dove ci sono terreni tufacei, cioè centro e sud Italia e nelle isole. Ma anche in altri paesi. In Italia, le catacombe si trovano soprattutto al sud, dove la consistenza del terreno è più tenace e, allo stesso tempo, più duttile allo scavo. La catacomba più a nord si trova nell’isola di Pianosa. Altre catacombe si trovano in Toscana (Chiusi), Umbria (presso Todi), Abruzzo (Amiterno, Aquila), Campania (Napoli), Puglia (Canosa), Basilicata (Venosa), Sicilia (Palermo, Siracusa, Marsala e Agrigento), Sardegna (Cagliari, S. Antioco). Nella conca del Mediterraneo, i cimiteri sotterranei più a sud si trovano in Nord Africa, soprattutto ad Hadrumetum in Tunisia.

– Catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, II secolo

I cristiani cominciarono a usarle a partire dal II-III secolo d.C. con il pontificato di Papa Zefirino (199-217), che affidò al diacono Callisto, futuro pontefice, il compito di sovrintendere al cimitero ufficiale della Chiesa romana sulla via Appia, dove sarebbero stati sepolti i pontefici del III secolo. Prima di questa data, venivano seppelliti in cimiteri comuni, usati anche dai pagani, oppure in terreni privati intorno a sepolcri di famiglia di cristiani abbienti che poco a poco furono ampliati ad altri cristiani di famiglie più modeste. A questo periodo si riferiscono i nomi di alcuni cimetri o catacombe che ricordano i proprietari, i benefattori, come le catacombe di Priscilla o di Domitilla. I cimiteri sopra terra, o subdiali, occupavano un’area ben definita e recintata sotto la vigilanza e cura di un custode. I corpi, di regola, venivano orientati ad est. Le tipologie di sepolture potevano essere di diverso tipo: da quelle più lussuose (sarcofagi) a quelle più modeste, come i semplici monoliti.

Si può credere che fin dall’origine i cimiteri fossero messi in relazione con i luoghi di riunione presenti all’interno della città (domus ecclesiae), come avvenne certamente nel sec. IV, quando furono costituiti i titoli2. Nel sec. III, essendo divenuto grandissimo il numero dei cristiani, fu necessario avere dei cimiteri comuni, che furono sempre più grandi. I cimiteri privati continuarono tuttavia ugualmente, e restarono in uso anche durante le persecuzioni di Valeriano e Diocleziano, quando quelli comuni furono confiscati.

– Basilica di Santa Pudeziana, Roma, costruita sulla casa del senatore Pudente, che si trova nove metri sotto la basilica. Questa casa divenne una ‘domus ecclesiae‘ nel I-II sec e succesivamente uno dei 25 titoli di Roma, il ‘Titulus Pudenti‘. Secondo la tradizione, San Pietro fu ospitato in questa casa
– Basilica di Santa Pudenziana. Mosaico absidale

Le catacombe come cimiteri vennero usate fino al V secolo, quando la Chiesa ritornò a seppellire esclusivamente sopra terra o nelle basiliche dedicate a martiri importanti. Questo cambiamento concorda con la libertà di culto decretata nel 313 con l’Editto di Costantino, e soprattutto col trionfo definitivo del cristianesimo nel 394, dopo le leggi di Teodosio3. Sui cimiteri furono allora costruite in Roma delle basiliche, o si trasformarono in chiese le cripte sotterranee.  Da questo momento in poi, e fino all’800 circa, le catacombe cominciarono ad essere considerate come dei luoghi santi, autentici santuari dove i cristiani potevano visitare le tombe dei martiri uccisi durante le persecuzioni.

Nel VI secolo i papi Vigilio e Giovanni III restaurarono le catacombe dopo i danni causati dalla guerra greco-gotica. Altri lavori di restauro furono effettuati dai papi Adriano I e Leone III in seguito all’incursione dei Longobardi di Astolfo del 756 e quella dei Saraceni dell’846, che provocarono gravissimi danni, aggravati anche dal “lavoro” dei saccheggiatori4. Gli ultimi lavori di restauro furono un ultimo sforzo per conservare questi cimiteri per celebrarvi gli anniversari dei martiri. Sono ancora visibili molteplici graffiti, appartenenti a questo periodo, di preghiere o ricordi di riti compiuti, incisi da pellegrini sugli intonaci delle cripte. Ma il popolo romano aveva già perduto l’abitudine di frequentare i cimiteri sotterranei, e gli sforzi dei papi a nulla valsero. Poco a poco venivano trasportati in città vari corpi dalle catacombe, soprattutto di papi. Poi, nell’anno 817, papa Pasquale I, ordinó la traslazione intramoenia di 2.300 corpi santi che si trovavano nelle basiliche cimiteriali e nelle catacombe fuori le mura aureliane, per evitare la possibile profanazione da parte dei barbari che da tempo minacciavano l’assalto alla città di Roma, come già aveva fatto Astolfo, re dei Longobardi, a Pavia. Questi corpi santi furono quindi sistemati nelle chiese.

– Catacomba Anonima di Via Anapo, II secolo

Una volta tolti i corpi e le reliquie dalle catacombe, queste vennero abbandonate, salvo poche eccezioni. La vegetazione, le frane ad altro spesso ostruirono le entrate delle stesse e, con il tempo, se ne persero le tracce. Nel Medioevo nessuno sapeva più dove fossero. La scoperta casuale di una nuova catacomba intatta (quella oggi denominata Anonima di Via Anapo), avvenuta sulla via Salaria il 31 maggio 1578, fu salutata pertanto come un evento straordinario. Il rinvenimento provocò un risveglio di interessi tra gli studiosi dell’epoca, ma anche dei cosiddetti “corpisantari”, “operai spacializzati” che sottomisero la catacombe ad un sistematico saccheggio, in cerca soprattutto di reliquie di martiri.

Antonio Bosio5 (1575-1629) diede un grande impulso allo studio delle catacombe di Roma che furono oggetto di un’esplorazione sitematica. I suoi studi vennero ripresi e continuati da altri studiosi, soprattutto da Giovan Battista De Rossi6 (1822-1894) che è considerato il fondatore dell’archeologia cristiana. Nel 1852 Papa Pio IX creò, per una idea di Giovan Battista De Rossi, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra per “custodire i sacri cemeteri antichi per curarne preventivamente la conservazione, le ulteriori esplorazioni, le investigazioni, lo studio, per tutelare inoltre le più vetuste memorie dei primi secoli cristiani, i monumenti insigni, le Basiliche venerande, in Roma, nel suburbio e suolo romano e anche nelle altre Diocesi d’intesa con i rispettivi Ordinari”.

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  1. I corpi di San Pietro e San Paolo furono trasferiti dalle loro rispettive sepolture e nascosti temporaneamente in questo cimitero nel 258 sotto la persecuzione di Valeriano. Per ulteriori approfondimenti invito alla lettura dei segunti articoli: Le reliquie di San Pietro e Le reliquie di San Paolo
  2. Il titolo (titulus) indicava originariamente la tabella (di marmo, legno, metallo o pergamena) che, posta accanto alla porta di un edificio, riportava il nome del proprietario. Questo perché le prime adunanze dei cristiani si attuavano all’interno di edifici privati (domus ecclesiae). I tituli privati comprendevano, oltre alla sala cultuale e ai locali annessi per usi liturgici, anche l’abitazione privata. Successivamente nacquero i tituli di proprietà della comunità, che conservavano il nome del fondatore o del donatore della casa. (fonte Wikipedia)
  3. Editto di Tessalonica. Editto che dichiara il cristianesimo come religione ufficiale dell’impero, proibendo l’arianesimo e i culti pagani https://it.wikipedia.org/wiki/Editto_di_Tessalonica
  4. Questi saccheggiatori fornivano di reliquie soprattutto monasteri tedeschi. Sul contrabbando di reliquie del periodo post carolingio invito alla lettura dell’articolo: Deusdona: il più famoso ladro di reliquie di tutti i tempi
  5. A. Bosio. Roma sotterranea. Opera Postuma. Roma 1710
  6. G.B. De Rossi- La Roma sotterranea cristiana. Roma 1867; Bullettino di Archeologia Cristiana dal 1863; Inscripciones christianes urbis Romae VII saeculo antiquiores, 1861.

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 Leggi anche: Le catacombe: morfologia; Le catacombe: iconografia ed epigrafia; Le catacombe: il culto dei martiri; Le catacombe di Roma; Le catacombe d’Italia; Le catacombe nel mondo

Prossimo articolo: Le catacombe del mondo

Tras las huellas de los apóstoles: las reliquias de Simón y Judas Tadeo

24 giovedì Apr 2025

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Catedral de Pienza, Judas Tadeo, reliquias, Simón el Zelote, Suanir

Sulle orme degli apostoli: le reliquie di Simone e Giuda Taddeo   Puoi leggere quest’articolo in italiano cliccando qui

La Iglesia los celebra juntos el 28 de octubre, y quizás sean dos de los apóstoles menos conocidos. Según la tradición, eran hijos de Alfeo1 y de María de Cleofás, por lo que no sólo eran hermanos, junto con Santiago el Menor, sino también primos de Jesús.

Simón era llamado también el Zelote o el Cananeo, para distinguirlo de Pedro. Ambos epítetos derivan de la misma palabra, del arameo qen’ana, que significa “el entusiasta” o, posiblemente, “el zelote”. Algunos creen que este nombre hace referencia a su carácter, mientras que otros piensan que perteneció a la secta de los Zelotes, que luchaban contra Roma, aunque esto no está confirmado por las fuentes.

Toda la información sobre este apóstol es extremadamente controvertida e incierta. Se dice que sucedió a Santiago el Menor como obispo de Jerusalén del año 62 al 107, cuando sufrió el martirio bajo el emperador Trajano en Pella, a la increíble edad de 120 años (!!), donde se había refugiado para escapar de la Segunda Guerra Judaica. Según el Martirologio Romano y la Leyenda Dorada, predicó en Egipto, Mesopotamia y luego en Persia junto con San Judas Tadeo, donde ambos sufrieron el martirio en Suanir (aunque en este caso, en el año 70). Según otras fuentes, el lugar del martirio habría sido Armenia o el Cáucaso oriental. Fue crucificado, pero en la iconografía suele representarse con una sierra, ya que, según otras tradiciones, éste habría sido el instrumento de su martirio: lo habrían aserrado por la mitad.

– Simón – Francesco Moratti 1710 aprox. – Basílica de San Juan de Latrán, Roma

Excepto su cabeza, que se encuentra en la catedral de Pienza (Toscana), y algunas otras reliquias en diversas iglesias, el resto de sus restos, junto con los de Judas Tadeo, se encuentran desde 1605 en la Basílica Vaticana, en el transepto izquierdo, bajo el altar que desde 1963 está dedicado a San José.

Anteriormente, los restos de ambos apóstoles estaban en Venecia, en la basílica que les fue dedicada. Según la tradición, en 1438, un fraile franciscano de Lanciano (Chieti, Italia) viajó a Venecia para venerar las reliquias de los dos santos y aprovechó la oportunidad para llevarse consigo parte de ellas: la cabeza y un antebrazo de Simón y una tibia de Judas. Cuando el robo fue descubierto, el Dogo de Venecia exigió su devolución al obispo de Chieti, quien se negó. Se intentó recuperarlas por la fuerza, lo que llevó a la intervención del rey de Nápoles, Fernando, quien ordenó poner fin a las hostilidades. A Venecia no le quedó más remedio que reconocer la nueva propiedad de las reliquias. Excepto la cabeza de Simón, que está en Pienza, como se mencionó antes, las otras dos reliquias todavía se encuentran en Lanciano, en el convento de San Agustín.

En cuanto a Judas, no debe confundirse con Judas Iscariote. Judas también es llamado Tadeo, que significa “el magnánimo”. Era agricultor y, posiblemente, el esposo de las bodas de Caná, donde Jesús realizó su primer milagro al convertir el agua en vino.

– Judas Tadeo – Lorenzo Ottoni, 1712 aprox. – Basílica de San Juan de Letrán, Roma

Judas habría sido misionero en Judea, Galilea, Samaria e Idumea, y luego se trasladó a Arabia, Siria y Mesopotamia. Se habría encontrado con el apóstol Simón el Zelote en Persia, donde evangelizaron juntos. En la ciudad de Suanir, alrededor del año 70, tras provocar la ira de los sacerdotes paganos, quienes instigaron al pueblo contra ellos, fueron asesinados a golpes de maza. Según otras versiones, fueron decapitados con una espada o una alabarda. En la iconografía, Judas suele representarse con un libro, símbolo de la palabra de Dios que predicó con tanta pasión, o con una alabarda o una maza. Fueron sepultados en Babilonia. Es evidente la gran diversidad de versiones sobre la vida y muerte de estos dos apóstoles, especialmente en cuanto a los lugares y fechas relacionados con Simón.

– Martirio de Simón y Judas Tadeo – Stephan Lochner, detalle, 1435-1440 – Städelsches Kunstinstitut, Frankfurt

La devoción a San Judas Tadeo está más extendida en el resto del mundo que en Italia, especialmente en Polonia, donde el nombre Tadeusz es muy común. En cualquier caso, San Judas Tadeo es conocido como el santo patrón de los casos desesperados, sin remedio, de lo imposible. Se dice que este poder especial proviene de una tradición del siglo XVIII, como una forma de reparar el agravio sufrido por el santo, quien durante siglos fue confundido con el otro Judas, el traidor. Incluso en el origen de los hechos, cuando se anunció que Judas había traicionado a Jesús y luego se había suicidado, en un principio se creyó que se trataba de este Judas.

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1.- Según la tradición, Alfeo era hermano de San José

2.- María de Cleofás era una de las ‘Tres Marías’: María de Cleofás, María Salomé (madre de Santiago el Mayor y de Juan) y María Magdalena.

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Il pastorale di San Canio, una reliquia con carattere

06 domenica Apr 2025

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Acerenza, Acheruntia, Bastone di San Canio, Francesco Saluzzi, Reliquie, San Canio

La cattedrale di Acerenza, un bellissimo borgo medievale in provincia di Potenza, conserva una reliquia molto particolare: il pastorale, ossia il bastone, o il baculum, del vescovo San Canio, che in alcune occasioni ‘reagisce’ a seconda di chi gli sta di fronte, sfidando le leggi della fisica.

Prima di ritornare su questo, vediamo prima per sommi capi che era San Canio. San Canio era un vescovo di Cartagine vissuto nel III secolo d.C. Durante la persecuzione di Diocleziano fu torturato e condannato alla decapitazione, ma riuscì a salvarsi grazie ad un forte nubifragio che mise in fuga i carnefici, cosa che approfittarono i suoi seguaci per farlo fuggire, riuscendo a raggiungere la costa campana. In questa zona, soprattutto Atella (attuale S. Arpino, Caserta), compì numerosi miracoli. Morì di morte naturale e le sue spoglie furono traslate nel 799 ad Acerenza, nella chiesa metropolitana, dove furono molto ben nascoste per evitarne la profanazione durante l’invasione dei saraceni e solo nel 1080 furono ritrovate e traslate alla nuova cattedrale che da quel momento fu posta sotto la protezione del santo, così come la diocesi.

– Altare di San Canio nella cattedrale di Acerenza. Nella parte sinistra dell’altare è situata l’apertura da cui è visibile il bastone di San Canio

Ma il vero protagonista del luogo, che attrae a tanti fedeli è il pastorale. Si trova all’interno di un sarcofago di pietra incorporato nell’altare della cappella centrale del deambulatorio della cattedrale, e fin dal primo momento la sua presenza farà diventare il luogo un punto di riferimento importante per la storia civile e religiosa del sud d’Italia.

– Pastorale visibile attraverso l’apertura dell’altare

Il baculum di San Canio ha una lunghezza di circa 150 cm., un diametro di 5, è grezzo e nodoso, senza il classico ‘riccio’ (non come è rappresentato nel simulacro del santo, vedi figura). Poggia su una superficie accidentata e ruvida ed è visibile attraverso una piccola apertura circolare praticata nell’altare, a mo’ di oblò, e chiusa da uno sportellino. Come dicevamo, la reliquia ha il potere di reagire, a seconda della persona che gli sta di fronte. Si avvicina o si allontana dall’apertura, in modo che può essere toccata quando si avvicina o quasi scomparire alla vista quando si allontana, o rimanere a metà strada. Alcuni sostengono che questo dipende dalla purezza d’anima di chi lo osserva, manifestando la sua benevolenza o disapprovazione.

– Cattedrale di Acerenza
-Acerenza. La cattedrale domina il paese e il paesaggio

Nel corso dei secoli sono stati attribuiti a questa reliquia eventi straordinari, e in alcune occasioni, ‘lievita’, come si può leggere nel registro dei visitatori che hanno assistito al fenomeno. Uno di questi accadde il 30 maggio 1779 e i giorni seguenti, ed è meticolosamente dettagliato e documentato da atto notarile, dal notaio di Acerenza Francesco Saluzzi, insieme ad un altro prodigio, un po’ meno famoso, che è quello della fuoriuscita dai marmi del sarcofago della cosiddetta ‘manna’, liquido di proprietà terapeutiche. La notte fra il 30 e il 31 maggio, dopo aver aperto lo sportellino, al lume di candela si poté osservare come la reliquia ‘lievitava’. La notizia si diffuse immediatamente in tutta la città, facendo riversare in chiesa una gran folla di gente che poterono osservare come il bastone rimanesse a mezz’aria. Dopo circa tre ore il sacro bastone venne visto, altrettanto miracolosamente, calare verso il basso, e ciò alla presenza di un prelato materano, che proprio in quei giorni si trovava al seguito di mons. Francesco Zunica, arcivescovo di Acerenza e Matera. Il prelato “tramortì a terra” dallo spavento. Era nota la competizione e gelosia fra le due sedi arcivescovili e il notaio (guarda caso!) non si fece scappare neanche una virgola del turbamento e la meraviglia del prelato materano. La fede e la costanza dei devoti di San Canio, in quella circostanza, sembrarono esser premiate attraverso altre due manifestazioni soprannaturali: la fuoriuscita dal sarcofago del santo e dal volto del suo simulacro della “santa manna” e la caduta di una inaspettata dolce pioggia “che fu di grande utilità alla raccolta” al posto della temuta tempesta precedentemente preannunciata.

– Acerenza

Acerenza, l’antica Acheruntia descritta da Orazio, sorge su di una collina che gode di un panorama fantastico e la cattedrale occupa una posizione imponente al centro di questo bellissimo borgo. Merita senza dubbio una visita. E chi lo sa, forse facendo una visita a San Canio potremmo essere gratamente sorpresi ….

¿Qué fue de la Menorá?

23 domenica Mar 2025

Posted by Nicoletta De Matthaeis in Artículos en español

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Arco de Tito, Éxodo, Foro de Vespasiano, Genserico, Guerra Judaica, Jerusalén, Menorah, Moisés, Segundo Templo, Shimon Shetreet, Temple Institute, Templo de la Paz, Tito, Vadim Rabinovitch

Che fine ha fatto la Menorah? Puoi leggere quest’articolo in italiano cliccando qui

– Bajorrelieve en el interior del Arco de Tito en el que se ve cómo los tesoros del Templo de Jerusalén, entre los cuales la Menorá, son llevados a Roma.

Yahvéh habló así a Moisés: “Harás además un candelabro de oro puro. El candelabro, su base y su caña han de hacerse labrados a martillo; sus copas, sus cálices y sus flores serán de una pieza con él. Y saldrán de sus lados seis brazos; tres brazos del candelabro de uno de sus lados y tres brazos del candelabro del otro lado. Habrá tres copas en forma de flor de almendro en un brazo, con un cáliz y una flor; y tres copas en forma de flor de almendro en el otro brazo, con un cáliz y una flor; así en los seis brazos que salen del candelabro. Y en la caña del candelabro habrá cuatro copas en forma de flor de almendro, con sus cálices y sus flores. Y habrá un cáliz debajo de los dos primeros brazos que salen de él, y un cáliz debajo de los dos siguientes brazos que salen de él, y un cáliz debajo de los dos últimos brazos que salen de él; así con los seis brazos que salen del candelabro. Sus cálices y sus brazos serán de una pieza con él; todo ello será una sola pieza de oro puro labrado a martillo. Entonces harás sus siete lámparas; sus lámparas serán levantadas de modo que alumbren el espacio frente al candelabro. Y sus despabiladeras y sus platillos serán de oro puro. El candelabro, con todos estos utensilios, será hecho de un talento de oro puro.  Y mira que los hagas según el diseño que te ha sido mostrado en el monte”. (Éxodo 25, 31-40)

La Menorá, el candelabro de siete brazos, es el símbolo más importante del judaísmo. Sin embargo, no estamos hablando de cualquier menorá, sino de ‘La Menorá’, con mayúscula, el famoso candelabro de oro que estaba en el Segundo Templo de Jerusalén y que fue llevado a Roma por las tropas de Tito, junto con otros trofeos, como consecuencia de la destrucción del Templo en el año 70.

Acompañada por dos ramas de olivo, hoy en día es el emblema del Estado de Israel y ha sido siempre el símbolo del judaísmo. La Estrella de David, la ‘Maguen’, que vemos en la bandera, se añadió solo a partir del siglo XVII. Su nombre contiene la raíz ‘or’, que significa luz, y recuerda la zarza ardiente —en el monte Horeb, donde Moisés escuchó la voz de Dios—, el árbol de la vida, la luz divina que guiaba al pueblo de Israel durante el Éxodo. Sus siete brazos representan la creación del mundo, que se completó en siete días.

– El emblema del estado de Israel, la Menorá entre dos ramas de olivo, flanqueado por banderas de la nación

Fue construida siguiendo las instrucciones contenidas en la revelación de Dios a Moisés durante el Éxodo, como se puede leer en Éxodo 25, 31-40 (mencionado anteriormente). Esta Menorá, fabricada en el desierto, se custodiaba en el Tabernáculo, el santuario portátil. Posteriormente, fue colocada en el Primer Templo, construido por Salomón alrededor del año 960 a.C., que más tarde fue destruido por Nabucodonosor II en el 587 a.C., lo que provocó el exilio a Babilonia del pueblo de Israel. En el 515 a.C., el Templo fue reconstruido cuando Ciro el Grande, tras conquistar Babilonia, permitió a los judíos abandonar la ciudad y regresar a su tierra1. También este Segundo Templo fue destruido, por Tito, como se mencionó antes, y esta vez de manera definitiva.

La Menorá, junto con todas las demás riquezas del Templo, fue llevada a Roma, como se puede observar en el bajorrelieve del interior del Arco de Tito, en las laderas del Palatino. Entre todos los objetos saqueados, era el de mayor valor, tanto material (pues era de oro) como simbólico, ya que representaba la derrota de Judea. En la escena esculpida, se pueden ver a los sirvientes que transportan los objetos sagrados saqueados del Templo (el candelabro, la mesa del pan de la proposición con los vasos sagrados y las trompetas de plata). Según el relieve, la Menorá era muy grande, con una altura similar a la de una persona, aproximadamente un metro y medio.

– Arco de Tito. Se entrevé el bajorrelieve.

Inicialmente, la Menorá fue resguardada en el Templo de la Paz, en el Foro de Vespasiano, situado entre los Foros y la Suburra, y permaneció allí al menos hasta el incendio del edificio, ocurrido en el año 192 bajo el gobierno de Cómodo. No se sabe con certeza dónde fue colocada después de esa fecha. Fue saqueada por los vándalos de Genserico en el saqueo de Roma del año 455 y llevada a Cartago junto con el resto del botín. En el año 533, Cartago fue conquistada por Belisario, el general de Justiniano, quien la llevó a Bizancio. Existen datos imprecisos que sugieren que desde allí pudo haber llegado a Jerusalén, pero no se sabe bien ni cómo ni cuándo, y se le perdió la pista. Se dice que pudo haber sido saqueada por los persas en el año 614 durante el asalto a Jerusalén y posteriormente fundida. Sin embargo, éstas son solo especulaciones que han dado lugar a la creación de un ‘mito’ del que surgieron varias leyendas sobre las ‘aventuras’ de la Menorá. Dado el tamaño y el peso del objeto, algunas teorías sostienen que, en realidad, nunca salió de la Ciudad Eterna. Otras teorías afirman que desde Bizancio fue llevada nuevamente a Jerusalén por los cruzados en el año 1024…

Tal vez se hundió en el Tíber o quizás fue escondida en el Laterano, ya que aparece mencionada en la lista de reliquias de la ‘Tabula Magna Lateranensis’. Más recientemente, se ha especulado que podría estar oculta en los sótanos del Vaticano. Otra teoría sostiene que, una vez llegada a Jerusalén, se perdió o fue escondida2 (o realmente fundida por los persas, como se mencionó antes). Pero, ¿cuándo?

La hipótesis de que se hundió en el Tíber cobró fuerza en 2002 cuando se encontró una lápida según la cual el candelabro habría sido visto en el siglo V en el fondo del Tíber, cerca de la isla Tiberina, posiblemente hundido accidentalmente durante el saqueo de Roma. Sin embargo, la famosa lápida resultó ser una falsificación del siglo XIX. Ya en 1818 se habían realizado búsquedas en el Tíber sin obtener ningún resultado.

En 1996, el ministro de Asuntos Exteriores de Israel, Shimon Shetreet, en una visita al Vaticano, pidió amistosamente a Juan Pablo II que se la mostrara, insinuando así que el candelabro podría estar oculto en el Vaticano, pero no se presentó ninguna solicitud oficial de restitución.

No obstante, la teoría más interesante, formulada en 1994, sostiene que la verdadera Menorá nunca fue llevada fuera de Jerusalén. Se habría escondido en previsión de la destrucción del Templo, mientras que la que Tito llevó a Roma no sería más que una copia o un candelabro pagano tomado de Mileto en sustitución del original. Esta teoría se basa en el hecho de que la Menorá representada en el Arco de Tito no tiene la forma que debería según la tradición bíblica, pues cuenta con dos plataformas hexagonales que no están descritas en la Torá y con imágenes no judías de dragones. Esta tesis se refuerza aún más al notar que la Menorá representada en la Piedra de Magdala no es igual a la del Arco de Tito. Si efectivamente fue escondida, tal vez en un refugio subterráneo bajo la Explanada del Templo, el problema actual es que nadie sabe dónde se encuentra este escondite.

-Nueva Menorah realizada en el 2012 por el Temple Institute. Jerusalén

Desde 2012, una réplica de la Menorá de oro puede admirarse en Jerusalén. Construida por el Instituto del Templo (Temple Institute), que ha replicado muchos objetos antiguos utilizados en el antiguo Templo, está situada en el barrio judío, dentro de una gran vitrina transparente, justo en la parte superior de la escalinata que conduce al Muro del Templo. La Menorá está hecha de bronce, recubierto con 45 kilos de oro de 24 quilates, pesa media tonelada y costó aproximadamente tres millones de dólares3. Su realización fue posible gracias a la generosidad de Vadim Rabinovitch, magnate y líder de la comunidad judía en Ucrania.

——

1.- En el 586 a.C. los objetos de valor del Templo fueron llevados a Babilonia. En el Decreto de Ciro, que también dispone la restitución de los enseres de oro y plata del Templo llevados por Nabucodonosor, no se menciona específicamente el candelabro, por lo que no hay certeza de que la Menorá del Segundo Templo fuera la primitiva, aunque es probable.

2.- Esta teoría es en la que se basa Stefan Zweig en su novela ‘El candelabro enterrado’.

3.- Para saber más sobre cómo ha sido realizada abre el siguiente enlace https://templeinstitute.org/history-holy-temple-menorah/

I martiri dell’Uganda

09 domenica Mar 2025

Posted by Nicoletta De Matthaeis in Pellegrinaggi, Storia

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Carlo Lwanga, Charles Lavigerie, Church Missionary Society, James Hannington, Kizito, Martiri dell’Uganda, Mutesa, Mwanga II, Namugongo, Padri Bianchi

I Martiri dell’Uganda sono un gruppo di 45 cristiani uccisi tra il 1885 e il 1887 per la loro fede sotto il regno del re Mwanga II del Buganda, uno dei regni tradizionali situati nell’attuale Uganda. Questi martiri includono 22 cattolici e 23 anglicani. La loro storia rappresenta un momento cruciale nella storia religiosa dell’Africa subsahariana e ha avuto profonde ripercussioni nella vita spirituale, sociale e politica del Paese.

La fine del XIX secolo segnò una fase di transizione per il regno del Buganda, con l’arrivo di missionari cristiani, commercianti arabi musulmani e influenze coloniali europee. Questi fattori portarono a un rapido cambiamento culturale e religioso. I primi cristiani ad arrivare furono i missionari anglicani (1877) della Church Missionary Society, seguiti nel 1879 dai  missionari cattolici della Società dei Padri Bianchi del cardinale Charles Lavigerie. Allo stesso tempo, l’Islam, introdotto da commercianti arabi, aveva già una presenza consolidata. L’opera dei missionari venne ben accolta dal re Mutesa e inizialmente anche del suo successore Mwanga II, salito al trono nel 1884. Pero questi ben presto cambiò atteggiamento, influenzato dalla sua cerchia di consiglieri, soprattutto dal cancelliere del regno, che vedevano che i posti chiave della corte sarebbero stati occupati da persone convertite al cristianesimo. Convinsero il re che la diffusione di questa religione costituiva una minaccia alla sua autorità in parte anche per il loro rifiuto di partecipare a pratiche tradizionali incompatibili con la fede cristiana. Questo rifiuto fu interpretato come insubordinazione, portando alle persecuzioni, che iniziarono nel 1885 quando il re ordinò la morte di missionari anglicani, tra cui il vescovo James Hannington che era il lider della comunità anglicana, seguite da altre numerose uccisioni di giovani convertiti. Joseph Mukasa, maggiordomo di corte e convertito cattolico, rimproverò il re per gli omicidi e così fu fatto decapitare, il 15 novembre 1885. Fu il primo martire cattolico.

Ma la maggior parte delle vittime, cattolici e anglicani, tra cui molti giovani servitori della corte reale, dovettero percorrere 27 miglia a piedi, distanza fra il palazzo reale di Munyonyo e Namugongo, luogo dell’esecuzione situato nella periferia di Kampala. Durante il cammino furono oggetto di ogni tipo violenza e alcuni furono uccisi nel tragitto. I sopravvissuti, al meno 26, vennero arrotolati dentro a una sorta stuoie fatte di canne e arsi vivi, il 3 giugno 1886. Fra questi ricordiamo Carlo Lwanga, il capo dei paggi della corte e leader dei neoconvertiti, che tentò di salvare il resto dei paggi, quasi bambini, dai desideri di sodomia del re. Il più giovane fra questi era Kizito, con soli 13 anni. Ma non solo: negli scontri tra le differenti fazioni collegate alle influenze dei missionari cattolici o protestanti e quelle dei commercianti swahili o egiziani perirono altre 150 persone.

– Santuario cattolico a Namugongo
– Pellegrinaggio al santuario cattolico di Namugongo il 3 giugno

I 22 martiri cattolici furono beatificati da Papa Benedetto XV nel 1920 e Papa Paolo VI li canonizzò nel 1964 durante il Concilio Vaticano II. La canonizzazione fu un evento storico, poiché rappresentò un riconoscimento del ruolo cruciale del cristianesimo africano nella Chiesa universale.

Anche la Chiesa anglicana onorò i suoi martiri, sebbene non attraverso un processo di canonizzazione formale. Questi vengono ricordati tutti gli anni con celebrazioni che sottolineano il loro ruolo nella diffusione del cristianesimo in Africa.

– Namugongo. Santuario, museo e anfiteatro che ricorda i dei martiri protestanti

Il sacrificio dei martiri non solo ha contribuito significativamente alla diffusione del cristianesimo in Uganda ma ha anche lasciato un’eredità spirituale e culturale che continua a influenzare un Paese dove oggi il cristianesimo è la religione predominante, con una maggioranza cattolica e una consistente presenza anglicana. Il ricordo dei martiri è diventato un simbolo di unità per una nazione diversificata.

Il martirio ebbe anche implicazioni politiche. La resistenza dei martiri all’autoritarismo di Mwanga II ispirò movimenti successivi di resistenza contro l’oppressione, gettando le basi per un senso di identità nazionale e di autonomia spirituale e politica.

– Visita di papa Francesco a Namugongo

Le reliquie dei martiri cattolici sono custodite nel Santuario di Namugongo, costruito sul luogo del martirio e ultimato nel 1968. Consacrato da Papa Paolo Vi durante il suo viaggio nel 1969, è oggi uno dei principali luoghi di pellegrinaggio cristiano in Africa. In esso alcuni raccapriccianti gruppi scultorei riproducono le ultime ore dei martiri. Ogni anno, il 3 giugno migliaia di persone da tutto il mondo si riuniscono per commemorare i martiri, rendendo questo evento un’importante occasione di fede e di turismo religioso. San Carlo Lwanga è tutt’oggi Patrono ufficiale dell’Uganda. Sempre a Namugongo, possiamo visitare un altro complesso che ricorda i cristiani anglicani martirizzati, e comprende un santuario, un museo e un anfiteatro,.

Questi santuari hanno anche ricevuto la vista di Giovanni Paolo II  nel 1993 e più recentemente di papa Francesco, nel novembre 2015.

La piedra de Mágdala

23 domenica Feb 2025

Posted by Nicoletta De Matthaeis in Artículos en español

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Tag

Cafarnao, Flavio Josefo, Guerra romano judaica, Lago Tiberíades, María Magdalena, Mágdala, Menorah, Migdal, Piedra de Mágdala, Templo de Jerusalén, Tito

La pietra di Magdala – Puoi leggere quest’articolo in italiano cliccando qui

Se trata de un interesantísimo hallazgo arqueológico descubierto en 2009 durante los trabajos de preparación del terreno para la construcción de un albergue para peregrinos en la antigua ciudad de Mágdala (hoy Migdal), a orillas del lago Tiberíades o Mar de Galilea. Según una ley israelí es obligatorio realizar excavaciones antes de iniciar nuevas construcciones, y éstas sacaron a la luz una parte de la antigua ciudad de Mágdala y una sinagoga con la citada piedra.

La importancia de esta piedra reside en el hecho de que está totalmente esculpida, presentando una iconografía que reproduce el Templo de Jerusalén. Un templo ‘en miniatura’. Y no solo esto, sino también la representación más antigua, entre las actualmente existentes, de la Menorah, el candelabro de 7 brazos, el símbolo más importante del judaísmo y de la luz de Dios que acompañaba al pueblo elegido durante el Éxodo. Por algunas monedas halladas y por el contexto arqueológico, la piedra se puede fechar en torno al 40-50 d.C., en cualquier caso antes del año 70, fecha de la destrucción del segundo Templo de Jerusalén por parte de Tito. La piedra se utilizaba para apoyar los rollos de la Torah, era por lo tanto una suerte de atril. Sus medidas son de aproximadamente 60×50 cm y 40 de alto, es de piedra caliza y estaba situada en el centro de la sinagoga.

Pero ¿por qué está considerada como una representación del Templo? Veamos los detalles:

– Piedra de Mágdala. Parte frontal, con la representación más antigua existente de la Menorah

En la parte frontal está la Menorah, apoyada sobre el altar del templo, flanqueada por las ánforas del aceite y del agua, todo ello situado bajo un arco sostenido por dos columnitas. En el lado opuesto aparecen dos ruedas con fuego bajo cada una de ellas. Esto es interpretado como la representación del “Carro de fuego” del profeta Ezequiel, el cual vio una nube incandescente aparecer en el cielo, que simboliza el trono de Dios, y que en este caso sería la representación del ‘Sancta Sanctorum’ del Templo, donde estaba guardada el Arca de la Alianza. También estos dos símbolos aparecen bajo arcos y columnas.

– Piedra de Mágdala. Las dos ruedas con debajo el fuego simbolizan el Carro de Ezequiel

Los lados largos son iguales: dos columnas que sostienen tres arcos bajo los cuales aparecen probables representaciones de filas de otras columnas situadas “en el interior del edificio” o, según otras interpretaciones, gavillas de trigo ofrecidas al templo. Al comienzo de cada arcada se ve un objeto, interpretado como una lámpara de aceite o un recipiente para el incienso.

– Piedra de Mágdala. Parte lateral. Los símbolos bajo los arcos podrían ser otros arcos y columnas en in interior del templo, o gavillas de trigo

También la parte superior de la piedra está totalmente decorada. En la parte central hay una gran roseta de seis pétalos flanqueada por dos grandes palmeras o, según otras interpretaciones, por instrumentos utilizados para la limpieza del Templo. Vemos dos cálices para ofrecer el vino y, alrededor de la roseta, cuatro rectángulos dispuestos simétricamente y seis “corazones” de diferentes medidas. En la mayoría de las opiniones estos objetos son interpretados como unos panes, basándose en el hecho de que en el Templo había una mesa con los panes de la proposición (o de la presencia). Y la gran roseta central sería el símbolo del velo del Templo, el que se rasgó en el momento en el que Cristo murió en la cruz y que, según el historiador Flavio Josefo (37-100), en él estaban bordadas unas flores.

– Piedra de Mágdala. Parte superior. La roseta está rodeada de símbolos rectangulares y en forma de corazón interpretados como los panes de la proposición, siempre presentes en el templo.

Una de las cosas que más ha impresionado a los arqueólogos bíblicos es precisamente el hecho de que esta piedra represente el segundo Templo de Jerusalén realizada cuando éste todavía existía y ha puesto en discusión la opinión, generalmente aceptada, de cuál era la relación entre el Templo antes de su destrucción en el año 70 y las sinagogas. Éstas no se consideraban lugares sagrados sino centros de asamblea y estudio, y sólo después de la diáspora se convertirían también en un centro de oración donde se desarrollaban los ritos religiosos. La presencia de la piedra en esta sinagoga habría servido para “elevarla” al rango de “templo menor” pudiendo así ser utilizada también como centro sagrado y de oración.

La sinagoga quedó enterrada durante la primera guerra judaica (66-70) y su descubrimiento es importante porque no se habían encontrado hasta ese momento muchas sinagogas de la época del segundo Templo -esta fue la primera en Galilea y la novena en todo Israel-, siendo además su estado de conservación bastante bueno, sumado al excepcional hallazgo de la piedra. Era un edificio de tres estancias con las paredes del vestíbulo decoradas con frescos polícromos. La estancia principal es de unos 120 m2 y estaba provista de bancos de piedra adosados a las paredes. Había columnas, y en el pavimento mosaicos. Todo ello sugiere que fueron necesarios muchos esfuerzos, personal especializado y mucho dinero para construirla. Mágdala, la ciudad de María Magdalena, era un centro importante y próspero, estratégicamente ubicado en la “Via Maris” la ruta que conectaba Egipto con Damasco. La pesca era uno de sus mayores recursos, además del comercio, y por eso en el Talmud es citada como “Mágdala de los peces”. Según Flavio Josefo, la ciudad tenía unos 40.000 habitantes y 230 barcos en el puerto del lago.

– Restos de la sinagoga de Mágdala hallada en 2009. En el centro una réplica de la piedra de Mágdala situada en el lugar que habría ocupado en aquella época.

El hallazgo en 2021 de una segunda sinagoga del mismo período, muy similar a la primera, también demuestra que Mágdala era un centro importante y próspero, aunque los datos de Flavio Josefo puedan parecer exagerados.  Pero mientras la primera estaba en el centro de una zona industrial, la otra estaba situada en una zona de carácter residencial, aunque la distancia entre ambas no llega a los 200 m. La sinagoga desarrollaba una tarea muy importante en la sociedad, y era multifuncional. De hecho era un centro para administrar la justicia, de reunión y estudio de la ley y donde se tomaban decisiones importantes. Y tal vez también, como mencionamos antes, un lugar de oración. Por lo tanto, era evidente la necesidad de poder disponer de más de un centro debido al tamaño de la ciudad.

Mágdala además, siempre según Flavio Josefo, tuvo un rol muy importante durante la gran revuelta del año 67 en el transcurso de la guerra judaica, que se concluyó con la destrucción del templo de Jerusalén. A pesar de su fuerte resistencia contra los romanos, Mágdala fue destruida. Pero no fue la invasión romana la causa del declive y el abandono de esta ciudad, sino el terremoto del 376 que determinó el traslado de las actividades comerciales a la cercana Cafarnao. Permaneció en ruinas durante casi un siglo. Luego, en el período bizantino, fue poco a poco reconstruida, gracias también a los peregrinos que iban buscando la casa de María Magdalena. Pero ésta es otra historia.

La piedra de Mágdala está expuesta en el Museo Rockefeller de Jerusalén, y la que se puede ver en el sitio arqueológico es una copia.

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